La pioggia battente di Oslo racconta meglio di qualsiasi analisi tattica la realtà della Nazionale italiana. Sotto l’acqua gelida dell’Ullevaal Stadion, gli Azzurri sono stati travolti 3-0 dalla Norvegia in una serata che ha il sapore amaro dell’ennesima débâcle. Sorloth, Nusa e Haaland hanno demolito in quarantadue minuti i sogni mondiali di un’Italia che sembra non riuscire più a rialzarsi da una crisi che dura ormai otto anni.
Il primo tiro in porta della Nazionale è arrivato al 92esimo minuto, con un colpo di testa innocuo di Lucca. Un dato che non è solo statistica, ma fotografia spietata di una squadra smarrita, incapace di creare gioco e di reagire alle difficoltà. È il simbolo perfetto di un declino che affonda le radici nel 2006, anno dell’ultimo trionfo mondiale, e che sembra non conoscere fine.
La notte norvegese: quando la realtà supera i peggiori incubi
Ieri sera, davanti alle telecamere di tutto il mondo, l’Italia ha mostrato il volto più crudo della sua crisi. Non è stata solo una sconfitta, ma una lezione di calcio subita da una Norvegia che ha dimostrato tutto quello che agli Azzurri manca: intensità, velocità, organizzazione, fame. I nordici hanno chiuso la pratica in un primo tempo da sogno, correndo a una velocità che l’Italia non è riuscita nemmeno a immaginare.
La prestazione di Oslo non è un incidente di percorso, ma il naturale epilogo di un percorso involutivo iniziato proprio all’indomani del trionfo berlinese. Dalla notte magica del 9 luglio 2006, quando Grosso e Del Piero regalarono il quarto titolo mondiale all’Italia, la Nazionale ha collezionato una serie impressionante di fallimenti: due eliminazioni al primo turno dei Mondiali (Sudafrica 2010 e Brasile 2014) e due clamorose mancate qualificazioni (Russia 2018 e Qatar 2022).
Il ko norvegese aggiunge un capitolo drammatico a questa storia di declino. La Norvegia ora comanda il girone con 9 punti e una differenza reti di +10, mentre l’Italia precipita a zero punti e -3 nella differenza reti. In un girone dove solo la prima si qualifica direttamente, gli Azzurri vedono già lo spettro dei playoff, nella migliore delle ipotesi.
Le radici profonde di una crisi sistemica
Il problema della Nazionale italiana non può essere ridotto a una questione di uomini o di moduli. È la cartina di tornasole di una crisi più profonda che attraversa tutto il calcio del nostro Paese. Come ha evidenziato la débâcle europea dei club italiani, eliminati quasi tutti dalle coppe internazionali, il movimento calcistico tricolore soffre di mali strutturali che vanno ben oltre i confini di Coverciano.
Il calcio italiano si comporta ancora come una nobile decaduta che non vuole prendere atto della realtà. Continua a ragionare come se avesse ancora i soldi per comprare Maradona, Zidane o Ronaldo, quando invece non li ha. E soprattutto, salvo rare eccezioni come l’Atalanta, non ha la mentalità né le strutture societarie per costruire il talento dall’interno.
La Serie A, con il suo campionato a venti squadre dove almeno il 50% delle partite ha un interesse pari allo zero virgola, produce un livello agonistico inadeguato per preparare i giocatori all’intensità delle competizioni internazionali. Quando poi si arriva in Europa o con la Nazionale, la differenza di ritmo e di intensità diventa incolmabile.
Il dramma dei settori giovanili e la perdita di identità
Uno dei nodi centrali della crisi azzurra è rappresentato dal disastro dei settori giovanili. Il massiccio arrivo di calciatori stranieri di quarta o quinta fascia ha sottratto spazio vitale ai giovani italiani, con conseguenze devastanti per tutte le rappresentative nazionali. Non è un caso che Roberto Mancini, negli ultimi anni della sua gestione, fosse costretto a fare più il talent scout che il selezionatore.
La mancanza di una cultura del lavoro di squadra ha corroso l’identità calcistica italiana. Dove una volta c’erano organizzazione tattica, sacrificio e spirito di gruppo, oggi prevale l’individualismo e la sovrastima del talento personale. Le squadre avversarie, come dimostrato ieri dalla Norvegia, riescono a prevalere proprio grazie a quegli elementi che il calcio italiano ha dimenticato: coesione, intensità, voglia di correre insieme verso un obiettivo comune.
I fantasmi del passato che non passano mai
La storia recente della Nazionale è un susseguirsi di occasioni mancate e di traumi mai completamente elaborati. Il doppio 0-0 contro la Svezia del novembre 2017 aveva fatto male, ma la sconfitta contro la Macedonia del Nord del marzo 2022 aveva lasciato cicatrici ancora più profonde. Il trionfo agli Europei 2021 era sembrato l’inizio di una rinascita, ma si è rivelato solo una parentesi illusoria in una crisi di lungo periodo.
Ogni fallimento sembra peggiore del precedente, ogni delusione più cocente. Il ko di Oslo ha il sapore amaro di una squadra che ha perso la bussola, che non sa più chi è e dove vuole andare. Luciano Spalletti, che aveva ridato entusiasmo dopo il disastro mondiale, si ritrova ora a dover gestire l’ennesima emergenza di un movimento che sembra aver smarrito ogni certezza.
L’esempio francese: quando dalle ceneri nasce la rinascita
Non tutto è perduto, però. La storia del calcio internazionale insegna che anche dalle crisi più profonde si può rinascere. L’esempio più emblematico è quello della Francia, che dopo aver mancato i Mondiali di Italia ’90 e USA ’94 seppe reagire con un progetto ambizioso e lungimirante.
I transalpini investirono massicciamente nelle infrastrutture (100 milioni di franchi per il centro tecnico nazionale), nominarono un supervisore per le selezioni e affidarono a Michel Platini la ricostruzione tecnica. Il risultato fu il trionfo casalingo del 1998, seguito dal successo agli Europei 2000. Un modello che l’Italia potrebbe e dovrebbe seguire, se davvero vuole uscire da questo tunnel.
Il tempo che scorre e le opportunità che si assottigliano
I Mondiali 2026 rappresentano probabilmente l’ultima possibilità per evitare un declino irreversibile. Se l’Italia dovesse mancare anche questa qualificazione, significherebbe dodici anni di assenza dal torneo più importante del mondo, un’eternità per una Nazionale che si considera tra le più titolate del pianeta.
La strada verso gli Stati Uniti, il Messico e il Canada è ora in salita ripida. La Norvegia ha dimostrato di essere superiore sotto tutti i punti di vista, e nel girone restano ancora trasferte insidiose come quella in Israele. Ogni passo falso potrebbe essere fatale, ogni pareggio un passo verso l’abisso dei playoff.
Il calcio che non sa più sognare
Quello che più colpisce dell’Italia di oggi è la mancanza di sogni. Una volta gli Azzurri scendevano in campo con la consapevolezza di poter battere chiunque, con quell’orgoglio e quella presunzione tipicamente italiana che spesso facevano la differenza nei momenti decisivi. Oggi quella squadra sembra giocare più per non perdere che per vincere, più per evitare figuracce che per conquistare gloria.
La pioggia di Oslo ha lavato via anche gli ultimi residui di quella fiducia. Ha mostrato un’Italia fragile, spaesata, incapace di reagire alle difficoltà. Un’Italia che, per la prima volta nella sua storia, ha perso due partite consecutive nelle qualificazioni mondiali e che non ha trovato la via della rete in tre gare di fila.
La responsabilità di un intero movimento
Il problema non è solo di Spalletti o dei giocatori scesi in campo ieri sera. È di un intero movimento che ha perso la strada, che ha dimenticato i valori che lo avevano reso grande. È di società che pensano più al marketing che alla sostanza, di dirigenti che non sanno più riconoscere il talento, di un sistema che ha messo il profitto davanti alla passione.
La crisi della Nazionale è lo specchio di un Paese che ha smarrito la propria identità calcistica. Non basta più affidarsi al talento individuale o alla furbizia tattica. Nel calcio moderno servono organizzazione, sacrificio, velocità, intensità. Tutto quello che l’Italia di ieri sera non ha saputo mostrare contro una Norvegia che ha giocato a calcio mentre gli Azzurri sembravano ancora fermi a ragionare.
Il risveglio dopo la notte di Oslo è amaro. Ma forse è proprio da questa consapevolezza che può iniziare una vera ricostruzione. Se avrà il coraggio di guardare in faccia la realtà e di cambiare davvero, partendo dalle fondamenta. Altrimenti, il declino azzurro rischia di diventare irreversibile, e i Mondiali 2026 potrebbero rimanere solo un sogno lontano sotto la pioggia norvegese.