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Covid, antiparassitario può bloccare danno ai polmoni

Covid, antiparassitario può bloccare danno ai polmoni

Un farmaco usato da più di 50 anni per le infezioni intestinali in grado di bloccare gli effetti dannosi che la proteina Spike del coronavirus causa alle cellule e il danno provocato da Covid-19 ai polmoni. Lo studio è di un gruppo di ricercatori del King’s College London, dell’università degli studi di Trieste e del Centro di ingegneria genetica e biotecnologie (Icgeb) di Trieste. Pubblicato oggi sulla rivista ‘Nature’, il lavoro ha identificato il meccanismo che porta alla fusione delle cellule infettate con Sars-Cov-2 e un farmaco in grado di bloccare questo processo, ora protagonista di una sperimentazione in India. 

Attraverso uno screening di laboratorio su oltre 3mila farmaci già approvati per la terapia di diverse malattie, il gruppo di ricercatori italiani e inglesi guidati da Mauro Giacca, professore dell’università di Trieste, docente di Cardiovascular Sciences al King’s College di Londra e responsabile del Laboratorio di medicina molecolare dell’Icgeb, ha scoperto che l’antiparassitario niclosamide, è in grado di bloccare gli effetti dannosi che la proteina Spike di Sars-CoV-2 causa alle cellule. 

Lo stesso gruppo di ricercatori nel mese di novembre dello scorso anno in un articolo pubblicato su ‘Lancet eBioMedicine’ aveva scoperto che i polmoni dei pazienti morti per Covid-19, oltre a mostrare un esteso danno e la presenza di coaguli che bloccano la circolazione del sangue, contengono un vasto numero di cellule anormali, molto grandi e con molti nuclei, infettate dal virus anche dopo 30-40 giorni dal ricovero in ospedale. Queste cellule anomale sono generate dalla capacità della proteina Spike del coronavirus di stimolare la fusione tra le cellule infettate e le cellule vicine.  

“Siamo molto soddisfatti dei nostri risultati – dichiara Giacca – per almeno due motivi. Primo, perché abbiamo scoperto un meccanismo completamente nuovo, attivato dalla proteina Spike e importante per il virus. Le nostre ricerche mostrano come Spike attivi una famiglia di proteine della cellula, chiamate TMEM16, che sono indispensabili per la fusione cellulare. Secondo, perché questo meccanismo è anche alla base dell’attivazione delle piastrine, e potrebbe quindi anche spiegare perché il 70% dei pazienti con Covid-19 grave sviluppa una trombosi. E ora sappiamo che c’è almeno un farmaco, la niclosamide, in grado di bloccare questo meccanismo”. 

Il farmaco, sintetizzato negli anni ’70, è stato usato a partire dal 1982 per la terapia delle infezioni intestinali dovute alla tenia. Il nuovo studio mostra come, inibendo TMEM16 e la fusione delle cellule, può bloccare anche la replicazione del virus. Sulla base di questi risultati, una sperimentazione clinica su 120 pazienti è già partita in India, dove l’infezione è ancora molto diffusa e si sta somministrando la niclosamide a un gruppo di pazienti ricoverati in ospedale con Covid-19, spiegano gli esperti. Si tratta di una sperimentazione appena avviata, puntualizzano, e pertanto sarà di fondamentale importanza attendere i risultati nel corso dei prossimi mesi per confermare l’efficacia del farmaco. 

“Penso che questa ricerca sia importante – continua Giacca – anche perché sposta l’attenzione dal tentativo di bloccare la moltiplicazione del virus, come finora si è cercato di fare con alcuni farmaci, con scarso successo, a quello di inibire il danno causato all’organismo dalle cellule infettate. Sono sempre più convinto che Covid-19 sia una malattia causata non dalla semplice distruzione delle cellule infettate dal virus, ma dalla persistenza di queste cellule nell’organismo per periodi lunghi di tempo. Il meccanismo che abbiamo scoperto potrebbe quindi anche essere coinvolto nello sviluppo del cosiddetto Covid lungo, ovvero spiegare la difficoltà che molti pazienti hanno a recuperare dopo la malattia”. 

La ricerca è stata condotta nei laboratori diretti da Giacca alla School of Cardiovascular Medicine & Sciences del King’s College London, con Icgeb e università di Trieste, e con la collaborazione dell’Istituto di anatomia patologica dell’università di Trieste e il supporto dei professori dell’ateneo friulano Rossana Bussani (anatomia patologica) e Chiara Collesi (biologia molecolare), ma anche con la collaborazione di altri gruppi di ricerca del King’s College London, Imperial College London e dell’Istituto di Biofisica del Cnr di Trento. 

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