28 Febbraio 2021

Covid, crepacuore e deliri: il lato oscuro della malattia

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Covid, crepacuore e deliri: il lato oscuro della malattia

Covid, il lato oscuro della malattia. La chiamano sindrome del crepacuore, o del cuore infranto, perché a causarla può essere un forte stress emotivo. Colpisce in particolare il genere femminile, ma non è molto frequente. Ecco perché Simonetta Scalvini, primario cardiologo all’Irccs Maugeri di Lumezzane, in provincia di Brescia, è rimasta colpita da quello che ha visto nel suo reparto in tempi di pandemia: “Nell’arco di una settimana in ospedale – racconta all’Adnkronos Salute – ho avuto ben tre donne, pazienti Covid, con infarto Takotsubo. Età tra i 52 e i 70 anni”.  

Oltre ai problemi respiratori e all’esperienza della rianimazione, spiega, “hanno sperimentato anche questo, un infarto dovuto a uno stress molto evidente. Le pazienti che ho seguito recupereranno da un punto di vista cardiologico, ma questi episodi ci fanno capire come la malattia da Sars-CoV-2 coinvolga la persona a 360 gradi, colpisca dal cervello al cuore, fino alla sfera psicologica, e comporti tutta una serie di patologie associate e complicanze. Per esempio, in 35 anni di professione, non ho mai visto tanti deliri come in questi pazienti”. L’esperta che è in prima linea nella lotta a Covid-19 descrive il lato oscuro della malattia.  

Quando il virus colpisce duramente, il tempo si dilata. “E’ tutto molto soggettivo – dice l’esperta – C’è chi recupera molto velocemente e altri che hanno grosse difficoltà. Di queste persone dobbiamo occuparci. Dobbiamo aiutarle a riprendere in mano le loro vite. E non è facile. Serve una riabilitazione intensa. E nei casi più gravi c’è bisogno di tempi più lunghi rispetto a quelli a cui eravamo abituati per esempio con i pazienti con scompenso cardiaco, o Bpco. Ho visto anche giovani malati Covid con problemi respiratori importanti e miocarditi. E’ incredibile anche l’aspetto dello stress. Per seguire queste persone nei primi giorni a casa dopo le dimissioni abbiamo organizzato un servizio di telemedicina e teleriabilitazione”. 

Un servizio che è anche “di telepsicologia all’occorrenza – illustra Scalvini – I colloqui con la psicologa si attivano quando l’infermiera si accorge che il paziente ha difficoltà di questo tipo. Per noi è importante che abbia fiducia nelle cure e in sé stesso e impari a gestire le sequele lasciate dalla lotta contro il virus”. Scalvini è attualmente titolare anche di un progetto di ricerca approvato dalla Regione Lombardia, ‘Mirato’: è un progetto di telesorveglianza post-Covid, messo in campo insieme anche al Papa Giovanni di Bergamo e altri ospedali del territorio fra le province di Brescia e Bergamo, una delle aree più colpite nella prima ondata e di nuovo alle prese con rialzi di contagi. 

La cardiologa dell’Irccs Maugeri, del resto, è un’antesignana della telemedicina. Il suo primo lavoro su questa forma di supporto a distanza lo ha pubblicato nel 1999 su una rivista scientifica del settore. Riguardava un progetto di ‘second opinion’ che ha coinvolto in Lombardia più di 600 medici di famiglia. “Si dava loro la possibilità di chiamare tramite un call center un cardiologo per avere una consulenza cardiologica in diretta con il proprio assistito davanti. Abbiamo dimostrato un impatto positivo sulle liste d’attesa, perché nell’88% dei casi il problema si risolveva senza necessità di prescrivere una visita specialistica”.  

Quell’idea è stata anche premiata in Europa e le isole finlandesi l’hanno applicata sui loro territori. In Italia c’è voluto più tempo per capire il valore di questi servizi. Oggi la pandemia di Covid-19 ha dato un’enorme spinta alla telemedicina. Con la teleriabilitazione, per esempio, l’esperta spiega che si è riusciti a ovviare a un problema che resta invisibile. “Il contrario di positivo al virus è negativo – fa notare Scalvini – Aver confuso questo con parole come guarito è stato un errore. Abbiamo casi drammatici che pur negativi non possono essere dimessi, persone che devono ancora vivere tutta la malattia con i suoi residui polmonari molto evidenti, con problemi aperti di tale entità che a volte, quando li mandiamo a casa dopo un mese di riabilitazione, fanno fatica persino ad alzarsi e camminare”, dice la dottoressa.  

Per questo motivo “sulla scorta dell’esperienza dei servizi di telemedicina che avevamo già prima, abbiamo trasformato parte del servizio in telesorveglianza per seguire questi pazienti a casa. I problemi nella fase post-acuta sono tanti e diversi – elenca Scalvini – ci sono persone anziane che prima del ricovero in rianimazione prendevano molti farmaci, per l’ipertensione e altre malattie ‘normali’ per l’età, e man mano hanno bisogno di riprendere le terapie. Noi facciamo un lavoro anche su questo con la nurse tutor, per il ripristino della vita prima del virus”.  

Con il progetto messo in piedi “li seguiamo per 3 mesi”. E’ un appiglio, raccontano i pazienti che hanno sperimentato il servizio. “Secondo me – nota l’esperta – in molti casi il post covid non viene assolutamente affrontato, perché già fatichiamo con la parte acuta. Le strutture riabilitative poi non sono tantissime in Italia e sono quasi tutte in alcune regioni e questo è un problema. La pandemia dovrebbe far riflettere su alcune problematiche imponenti che restano in ombra”.  

Un esempio? “Il lato psicologico di questa pandemia. Da un lato abbiamo gli adolescenti colpiti per gli sconvolgimenti che questo drammatico evento ha portato nelle nostre vite. E poi c’è la malattia che in qualche caso ha portato a galla patologie psichiatriche che erano presenti sottotraccia. C’è un interessamento cerebrale e per alcuni pazienti ho anche temuto parecchio. Ricordo una donna ricoverata che per 40 giorni ha avuto una grave forma di delirio che nessun farmaco riusciva a far rientrare. I figli erano terrorizzati. Ci è voluto molto tempo per risolverlo. Siamo tutti colpiti nel profondo dall’impatto di questa pandemia. Anche il personale medico infermieristico. E’ dura”.  

“Forse – continua Scalvini – con il proseguire della ricerca presto capiremo cosa determina una reazione così grave in alcuni pazienti rispetto ad altri. Fatto sta che abbiamo persone che in qualche caso non sappiamo nemmeno se ritorneranno alla situazione pre-Covid. Una quota probabilmente no. E questo ci riporta a un altro aspetto dominante in questa emergenza: l’incertezza. Fa una certa impressione a un medico confrontarsi con l’impotenza, con il non avere farmaci e non sapere bene cosa fare. Nei primi mesi è stato così: abbiamo navigato nel buio, eravamo a mani nude, facevamo dei tentativi, convivevamo anche con la paura di ammalarci”.  

Poi, però, ci sono “anche le soddisfazioni: quando vedi arrivare un paziente e non scommetteresti mai su una sua ripresa. E invece dopo la riabilitazione lo vedi in piedi, lo vedi tornare a casa. Il cuore diventa più leggero”. E’ proprio per vedere sempre più epiloghi di questo tipo che, conclude Scalvini, “abbiamo investito tanti sforzi. I terapisti esperti di riabilitazione cardiorespiratoria sono con noi in prima linea. C’è la ricerca che ci ha permesso di mettere in pista una serie di strumenti, come l’uso quotidiano di algoritmi per stadiare il paziente e monitorarlo per capire se è in una fase di nuovo critica. Ci hanno aiutato il ‘fattore umano’ degli specializzandi e dei neolaureati, la cui presenza in ospedale è stata sdoganata dall’emergenza ed è stata una ventata d’aria fresca. E ancora una volta ci ha aiutato la tecnologia. Sia dentro l’ospedale che fuori, nelle case dei pazienti”. 

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